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#vietontheroad: Saigon, fotografia, memoria e considerazioni sulla dignità dei viaggi turistici

Posted by admin on 03 Gen 2013 / 0 Comment

E anche anche questo breve viaggio in Vietnam sta finendo. Sto scrivendo dall’aeroporto di Saigon.

La città mi ha stupito, perché ci sono arrivato senza un’idea se non la suggestione di vecchie letture e vecchi racconti di altri viaggiatori.

È una città moderna, dinamica, giovane, giovanissima ed evidentemente proiettata verso un futuro molto vicino. Allo stesso tempo mantiene un sapore che sa di sincretismo francese-asiatico come in pochi altri posti. Ma l’ho vista poco.

Ieri riflettevo sull’importanza dei nomi. C’è una certa sacralità nell’attribuire un nome ad una cosa o ad una città in questo caso. Tanto che nell’antichità cambiare il nome ad una città equivaleva a cancellarla, a cambiarla, a raderla al suolo (procedura peraltro complessa, che richiedeva vari passaggi rituali).

Saigon, dopo l’ “American War”, fu rinominata Ho Chi Min City, ma molti (quasi tutti) continuano a chiamarlo Saigon.

“Sono nata a Saigon e morirò a Saigon” ci ha detto Rosy, la nostra guida locale. Rosy non è il suo nome, ma la buffa somiglianza con la Bindi ha imposto il soprannome (sempre bisbigliato, a dire la verità).

Confesso che girare per la giungla del delta del Mekong in piroga con Rosy Bindi ha avuto un suo perverso fascino. Soprattutto quando (ma non vale per il delta) in città e’ tutto un susseguirsi di bandiere rosse con la stella gialla e la falce e martello, davanti a bar alla moda e boutique hotel.

Un socialismo osservato da zio Ho con sguardo probabilmente compiaciuto e che lascia riflettere.

Riflessione che comunque esula da frettolose suggestioni di viaggio.

C’è una cosa, però, che non potrò mai dimenticare: il museo della Guerra. Alcuni lo ritengono troppo di parte, un museo dove la storia e’ scritta dai vincitori. Ma quando non è stato così? La storia la scrivono sempre i vincitori. E poi quella sporca guerra e’ stata davvero sporca.

La sezione dedicata all’ “agent orange”, il componente chimico usato dagli americani per distruggere per anni e anni a venire la vita nei campi e nelle risaie e’ stata un pugno nello stomaco.

Io ne ho viste davvero tante in giro per il mondo, ma trovarmi davanti alle fotografie che testimoniano gli effetti devastanti sulla popolazione e sulle generazioni successive e’ stato quasi troppo. La vera dimostrazione di dove possa arrivare la follia umana quando il sistema della ragione va in tilt.

Allora i media non riuscivano ad informare puntualmente l’opinione pubblica su quello che stava succedendo. Tranne per….

Tranne per un piccolo (comparato ad oggi) numero di cronisti e fotografi che hanno rischiato, e in molti caso perso, la vita perché tutto quello che succedeva fosse conosciuto.

Il museo ospita una permanente che rende un doveroso tributo ai fotografi… Da Robert Capa (che proprio qui e’ morto saltando in aria su una mina, cercando di raccontare la vita nei villaggi del dopoguerra) alla famosa foto iconica di Nick Ut.

Il museo, quella mostra, ha rinforzato la convinzione di quanto sia importante fare quello che facciamo: raccontare storie. È l’unico modo di salvare dall’oblio le storie e gli errori del passato e consegnarli al presente e alle future generazioni.

Chiudo il post qui. Avrei voluto scrivere qualcosa sul turismo responsabile e sulla dignità del turismo di massa ma ora non ho tempo e la batteria dell’ipad sta anticipando la partenza. Lo farò domani a Roma.

Si torna a casa.

Grazie per avermi letto e seguito in questo viaggio breve ma sorprendente.

A

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